Continuiamo a trattare i miti degli Sport da Combattimento con la parte 2 della nostra trattazione. Anche in questo breve scritto argomenteremo intorno a cinque argomenti che continuano a persistere nel mondo. Qui potete trovare la prima parte dell’articolo.
Miti degli Sport da Combattimento 2
La corsa è la base per un combattente
Il film “Rocky” ci ha fatto davvero male, per certi versi. Ha insegnato a generazioni di sportivi che il pugilato, e più in generale gli SDC di percussione (o striking), fossero solo un connubio di corsa, corda e sacco. La scena a cui si assisteva era la seguente. Il ragazzo voglioso e talentuoso, che voleva dare un senso agonistico al proprio sport diceva al maestro: “Vorrei combattere”. E la risposta era sempre e solo la stessa: “Vai a correre”. E quindi torme di combattenti li ritrovavi e li ritrovi come dei moderni Forrest Gump a consumarsi le scarpe e macinare chilometri, tanto da diventare mezzofondisti mancati.
Diciamo subito la nostra: la corsa è importante, e lo vedremo meglio tra un po’. Ma la preparazione atletica non si può esaurire solo nella corsa, e solo nella corsa di quantità in cui si fanno più chilometri possibili. La corsa può essere un ottimo metodo per lo sviluppo di potenza e capacità aerobiche ed anaerobiche, ma solo se modulata e periodizzata. Altrimenti potrebbe avere effetti controproducenti in termini di adattamento. Ricordiamo sempre che gli adattamenti cardiaci eccentrici, ossia legati ad un alto volume di lavoro dovuto alla corsa estensiva, sono inversamente proporzionale ad adattamenti concentrici, ossia legati a lavori ad alte intensità. E gli SDC sono sport aerobici anaerobici alternati. Voi lo vedreste bene un fondista sul ring?
La corsa non serve a nulla
Ma come, prima hai denigrato il concetto che la corsa sia la base, ed adesso te la prendi con il fatto che la corsa non serve a nulla? Come molti dei maestri “vecchia scuola”, quelli cresciuti a pane e Rocky Balboa, considerano la corsa imprescindibile, così di converso molti giovani allenatori fanno l’errore uguale e contrario: vedono la corsa come “la mortificazione del sistema nervoso”, e la ritengono inutile.
In ossequio all’idea aristotelica del “giusto mezzo”, la nostra posizione si situa proprio tra gli uni e gli altri. La corsa è utile, ma solo se utilizzata con metodi e modulazioni corrette e programmate. Il discorso che si sente fare dai denigratori della corsa è sempre lo stesso, ed anzi ad un primo impatto possiede anche una certa logica. “Ma se il match ha riprese da 2,3,5 minuti, e si esaurisce in massimo 10-15 minuti, perché devo correre per 40 minuti di seguito?”
Volete sapere il perché? Perché per allenare il cuore ed il sistema energetico aerobico deve verificarsi una necessaria condizione: battito cardiaco costante. Solo grazie a ciò si ottiene il massimo in termini di adattamento cardio circolatori e muscolari, come l’aumento della gittata cardiaca e l’aumento della capacità mitocondriale, fondamentali per avere efficienza nella capacità di recupero e nello smaltimento del lattato. Solo un movimento ciclico come la corsa, ma potrebbe essere la stessa cosa con nuoto, vogatore o bicicletta, permette di mantenere battiti costanti per lunghi periodi di tempo senza accumulo di lattato, con buona pace dei denigratori di cui sopra.
Ma se qualcuno riuscisse a fare swing con kettlebell per 30 minuti mantenendo una frequenza cardiaca tra 70% e 80% della frequenza massima, siamo pronti a ritrattare tutto. Fino a quel giorno rimarremo della nostra idea, che per fortuna non è solo nostra ma proviene da alcuni tra più autorevoli preparatori italiani di SDC, come Alain Riccaldi (di cui abbiamo parlato).
Bisogna lavorare sempre con i tempi del combattimento
Anche questo falso mito ha una sua logica apparente, ma solo se si conosce poco la gerarchia della preparazione fisica. Premesso che per un novizio, od anche un amatore, il lavoro specifico è sempre la cosa migliore. Ma quando il livello sale, continuare a lavorare sempre e solo sui tempi da 2,3 o 5 minuti non è il massimo dell’efficienza. Questo perché nella gerarchia di ogni programmazione dell’allenamento, il generale precede sempre lo specifico, sia nei modi che nei tempi.
Prima le qualità devono essere sviluppate in maniera aspecifica, solo successivamente, devono essere modulate verso lo specifico, sia nei movimenti che nei tempi. Secondo voi Bolt farà sempre e solo lavori che durano poco meno di 10 secondi? La risposta ovviamente è retorica. Ed allora perché un combattente farà sempre e solo lavori con lo stesso tempo del match? A voi l’ardua sentenza.
Si hanno risultati solo se allenamento è allo sfinimento
Anche questa è una concezione “vecchia scuola”, quella che oggi è tornata di moda tatuata nella lingua di Albione come “no pain no gain”, secondo la quale solo distruggendosi fisicamente e psicologicamente si ottengono i risultati. Ovviamente ciò non solo non è vero, ma potrebbe essere anche controproducente. Se ci allontaniamo dal mondo dei film e delle leggende da spogliatoio, e ci affidiamo alla teoria e alla pratica sperimentate, l’efficacia di una sessione di allenamento non è data necessariamente dalla quantità di sudore prodotto ed impresso sulla maglia, e nemmeno dalla distruzione a cui abbiamo sottoposto il nostro corpo ed il sistema nervoso.
Sottoporre un combattente ad una quantità di stimoli sistematicamente eccessiva che lo portando sempre allo stremo, conduce fatalmente a sovrallenamento ed infortuni, e non consente di fornire il giusto recupero. Senza aver considerato il fatto che determinati lavori, ad altissimo tasso tecnico e neurale, devono essere svolti in stato di freschezza psicofisica: pensiamo a quanto lavoro è necessario all’apprendimento di nuove tecniche o combinazioni, e ciò può essere svolto solo con un atleta in perfette condizioni, di certo non dopo che si è arrivati stremati alla fine dell’allenamento o dopo giorni e giorni di lavoro senza soste.
Combatto sulle 3 riprese? Mi alleno sulle 6 riprese
In questa parte 2 sui miti degli sport da combattimento non potevo non trattare di una cosa che generazioni di combattenti hanno fatto e continuano a fare. Il discorso è sempre di logica spicciola e non tiene in conto del concetto scientifico di adattamento. Sembrerebbe facile, combatto sulla distanza di x riprese? E allora mi alleno sulla distanza doppia. Così non incorrerò di certo in problemi di carenza di energie. Tutto bello. Tanto bello quanto sbagliato. Ripetiamo il concetto, più si avvicina la gara più l’allenamento deve essere specifico, nei modi e nei tempi, sia nell’intensità che nel volume.
Lavorare raddoppiando le riprese significa, molto brutalmente, fornire uno stimolo al complesso neuro motorio totalmente sbagliato. Significa aumentare il volume. Ma, essendo questo inversamente proporzionale all’intensità, quest’ultima non potrà che essere più bassa. Quindi invece di lavorare a 90 all’ora per 3 riprese, ci saremo allenati ad andare a 70 all’ora per 6 riprese.
Con molta probabilità, durante il match noi ci faremo le nostre ipotetiche 3 riprese a intensità 70, magari non vincendo, però avendo ancora altre 3 riprese di energie per lavorare a 70. A cosa vi servono 3 riprese aggiuntive a fine gara dopo una sconfitta? Ecco, spero che abbiate capito. Lo stimolo che dobbiamo dare all’atleta, nel periodo precedente la gara, deve essere quanto più vicino possibile al modello di prestazione. Punto.